Renato Scionti. L’uomo e il personaggio

La Fondazione Di Vagno ha ricevuto in dono dalla figlia Beatrice – con il consenso dei suoi fratelli – l’archivio personale e i libri di Renato Scionti, filosofo, docente e parlamentare comunista. Prima di leggere questo ricordo, scritto dalla stessa Beatrice Scionti e da suo marito, dott. Ambrogio Aquilino, vi consigliamo di consultare il breve profilo biografico presente nella nostra basedati archivistica: https://fondazionedivagno.archiui.com/entita/3967-scionti-renato?i=0

Rigoroso e distaccato. Se possano essere considerati sufficienti solo due aggettivi per descrivere una persona, rigoroso e distaccato sarebbero quelli più significativi per descrivere i tratti salienti di Renato Scionti.
È necessario chiarire, innanzitutto, che il suo essere “distaccato” non ha nulla a che fare con un atteggiamento arrogante o di presunzione di superiorità rispetto agli altri. Era, più che altro, una sorta di trance intellettuale, per cui l’impressione che dava, in quanti hanno avuto rapporti con lui, era quella di un uomo costantemente assorto nei suoi ragionamenti e nei suoi pensieri, che assorbivano completamente la sua concentrazione e la sua partecipazione agli eventi della vita. Sembrava che fosse un palmo sopra le cose, le emozioni e le persone con cui aveva a che fare.
Significativa è la testimonianza su Scionti, professore di Storia e filosofia, che il prof. Renzo Liberti ha riportato nel libro “Compagni sessanta anni fa al Flacco”. In quella raccolta di saggi, sono raccontati gli anni sessanta del secolo scorso con i ricordi di quanti hanno maturato la propria formazione in quegli anni in quello straordinario Liceo.
Racconta Liberti: “La cosa che più mi è rimasta impressa, tuttavia, inspiegata fino a pochi anni fa, era il suo sguardo frequentemente lontano, con un atteggiamento di sostanziale assenza dalla realtà contingente. Ciò emergeva, ad es., dal fatto che egli non sia mai riuscito a memorizzare visivamente alcuno di noi (tranne Luciano Canfora e qualche altro): è rimasto memorabile il “te, chi sei tu?” con cui al III liceo continuava all’occorrenza ad appellarci; o dalla scelta di non assegnare mai voto inferiore a 6, anche ad interrogazioni francamente penose, interpretabile sia come suo disinteresse “di fondo” per l’aspetto formale della valutazione di ciascuno di noi sia come 18 politico ante ’68. Molte altre prove testimoniavano la sua assenza. C’era, in particolare, il non accorgersi (non badarci?) delle nostre macroscopiche goliardate. Ne ricordo un paio. La volta che, volendo prodursi nella sciocca bravata di inviare segnali di fumo in classe accendendo pezzetti di carta sotto il banco (erano ancora quelli in legno) e facendone uscire il fumo dal foro per il calamaio, Arpaia causò un principio d’incendio, che stoicamente spense a mani nude, soffrendo in silenzio nel divertito sconcerto di tutta la classe: il Prof. non ci fece minimamente caso! Nell’altro episodio, le 3 file di banchi, all’unisono sollevate a turno quando egli le oltrepassava durante la spiegazione, presero ad avvicinarsi alla cattedra un po’ per volta: egli continuò imperterrito ad arare su e giù il passaggio che si faceva sempre più stretto finché, divenuto impraticabile, continuò imperterrito la lezione camminando assorto dietro la cattedra…”.
La sorella Beatrice, che ha condiviso con lui le grandi difficoltà degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, nelle sue memorie descriveva Renato, per il suo carattere di studioso schivo, come persona fredda e indifferente alle emozioni. In realtà era una persona di grandissima umanità ed essenzialità: fu profondamente commosso, ad esempio, dalla notizia che stesse per diventare nonno e non lo turbò affatto che la figlia gli stesse comunicando di essere incinta prima del matrimonio (nonostante i pregiudizi del tempo, probabilmente non ci pensò neanche per un istante), ma fu sopraffatto dall’emozione e dalla gioia che quella notizia gli stesse procurando. Lui stesso confessa le sue emozioni, quando, alla fine della guerra di Liberazione dal nazifascismo di cui fu tra i protagonisti, fu chiamato a fare il suo primo comizio pubblico in occasione della Festa del 1°Maggio del 1945: “La manifestazione si svolse in una Piazza del Duomo, gremita di folla che traboccava anche nelle strade vicine. Erano presenti molti partigiani con il fazzoletto rosso al collo, alcuni ancora armati. Erano presenti anche migliaia di lavoratori che nei giorni precedenti avevano occupato le fabbriche e cittadini di ogni età. Numerosissime erano le bandiere rosse, anche vecchie bandiere conservate nella clandestinità e che allora, dopo tanti anni, sventolavano alla luce del sole. I discorsi furono tenuti dal balcone del Broletto vecchio, palazzetto del Comune medioevale che si affaccia sulla piazza, a fianco del Duomo. Dante Gorreri mi chiamò in disparte nel Salone del Broletto, per dirmi, improvvisamente, che a nome del P.C.I. avrei dovuto essere io a parlare. Non avevo mai parlato in una piazza. Avevo paura di non essere all’altezza delle attese di quelle decine di migliaia di lavoratori e di cittadini. Cercai di defilarmi, ma Dante, come al solito, era un uomo deciso, “parla” mi disse “parlerai benissimo”. Mi prese per un braccio e mi spinse sul balcone del Broletto. Così improvvisai il mio primo comizio. Parlai per circa dieci minuti rievocando i martiri, i sacrifici della guerra di liberazione nazionale ed il significato che aveva avuto per tutti noi la Resistenza. ”Non possiamo limitarci” dissi allora “al ripristino delle libertà formali: dobbiamo aprire uno spazio nuovo perché i lavoratori diventino protagonisti del loro destino ed artefici insieme alle altre forze democratiche ed agli intellettuali di un profondo rinnovamento del Paese.” Ed in conclusione ribadii: ”Oggi si celebra la festa del lavoro ed i lavoratori rinnovano il loro impegno di lotta perché il fascismo non torni più nel nostro Paese e perché sia costruita una società più giusta”. Poche parole e molti applausi. E non poteva essere diversamente in un momento così esaltante e denso di emozioni come fu quel 1° maggio 1945.”
Si può affermare che il suo distacco era una forma di relativismo, abituato com’era a filtrare tutto attraverso l’analisi oggettiva delle cose e la ricerca del significato trascendente delle questioni, anche nelle vicende politiche più dure e tristi della sua storia. Quando si oppose alla svolta revisionista del “suo” Partito, nel periodo in cui fu eliminato dallo Statuto il richiamo all’ispirazione marxista leninista della linea politica, egli fu osteggiato in maniera astiosa e, in alcuni frangenti, feroce (in perfetto stile staliniano) dallo stesso gruppo dirigente che spingeva per la svolta moderata e per la rottura con la tradizione filo sovietica del PCI, senza alcun rispetto per la storia di Renato e del modo leale e rigoroso con cui sosteneva le sue ragioni di militante comunista. Nonostante tutto, nonostante l’accusa di frazionismo che gli fu lanciata contro (una sorta di anatema per i comunisti), Renato non ha mai provato rancore verso nessuno di quei compagni. Non considerava che ci fosse nulla di personale di cui rammaricarsi, poiché il suo più grande dolore era causato dagli eventi politici che si stavano sviluppando e che lui considerava fossero una tragedia storica per il movimento operaio. Sosteneva, infatti, che privare le classi subalterne di uno strumento di analisi delle dinamiche storiche ed economiche quale era l’ideologia marxista, avrebbe impedito qualsiasi possibilità di definire una strategia per una nuova prospettiva socialista nella società italiana e di elaborare una efficace politica di contrasto verso l’attacco ai diritti dei lavoratori che si stava sviluppando in tutto il mondo nella nuova fase di ristrutturazione capitalista a seguito della crisi dell’Unione Sovietica.
Argomentava le sue ragioni con un profondo rigore intellettuale, che affascinava i suoi interlocutori e che intimoriva, tuttavia, quanti volessero contrastare le sue posizioni. Ecco la sua seconda caratteristica distintiva. Era rigoroso, in modo scientifico si potrebbe dire. Da questo punto di vista, era decisamente gramsciano. Per lui l’impegno intellettuale significava serietà, rigore, moralità in tutti i campi della vita politica e sociale. Nell’analisi politica, per dirla con lo stesso Gramsci, occorreva fare “un lavoro minuzioso con il massimo scrupolo e onestà scientifica, occorreva seguire il processo di sviluppo dell’intellettuale pensatore, per ricostruirlo secondo elementi stabili e permanenti, cioè che sono stati realmente assunti dall’autore come pensiero proprio”.
Renato possedeva un’immensa libreria ed era difficile immaginare che avesse mai potuto studiare o semplicemente leggere quell’enorme mole di pagine. Se si apriva però qualcuno di quei libri, si trovavano in prima pagina il periodo in cui era stato letto e, nelle pagine interne, annotati sui bordi, gli appunti, le note o i richiami o rinvii ad altri libri. Era abituato a citare, a memoria, a piè di pagina dei documenti che scriveva, le fonti da cui aveva ripreso una considerazione o uno stralcio. Lo storico Federico Chabod, Presidente della commissione d’esame per l’abilitazione all’insegnamento nel 1937, era rimasto molto impressionato dalla minuziosità con la quale il candidato Renato Scionti aveva annotato la bibliografia dei testi citati o dai quali aveva preso spunto per elaborare la sua prova scritta, tanto da attribuirgli una rarissima votazione con lode.
Era in realtà rigoroso con se stesso nella vita e nelle abitudini quotidiane. Aveva vissuto un’infanzia complicata, figlio di due agiati figli della borghesia agraria siciliana, caduti in disgrazia per una storia d’amore proibita. La madre morta di tisi all’età di 32 anni ed il padre, studioso di teologia, piuttosto distratto rispetto a lui ed i tre fratelli (di cui due sorelle). Finirono tutti in orfanotrofio e Renato per completare gratuitamente gli studi dalla II alla V ginnasio imparò presto quale fosse il “rigore” della vita e dovette da subito dedicarsi con il massimo impegno agli studi, che peraltro lui amava, per evitare l’alternativa di essere avviato alle attività artigiane. Non avrebbe, peraltro , potuto praticarle, poiché non ha mai goduto di gran buona salute, tanto da aver trascorso sei anni della sua giovinezza (dal 1931 al 1937)in ospedale ed in sanatorio per la cura della TBC, che era purtroppo patologia diffusa in quegli anni soprattutto tra chi viveva in condizioni disagiate. Per guarire, era stato sottoposto ad una asportazione parziale di un polmone ed a lunghi periodi di terapie mediche: tutto questo lo condizionò per tutta la sua vita. Negli ultimi anni sembrava incarnasse un tomo di Patologia medica, per quante complicanze e comorbilità si erano accumulate: tuttavia, a memoria dei suoi familiari, era impressionante la costanza (il rigore etico) con cui ogni mattina, sino agli ultimi giorni della sua esistenza, egli portasse avanti, dalle prime ore del mattino fino a sera, il suo lavoro di studio, di ricerca e di analisi storica per scrivere le sue “Note di vita politica. Tra memoria e storia”. Ogni ricordo doveva essere supportato da riscontri riferiti alla realtà.
Considerava che il rigore metodologico nell’analisi e nella proposta politica rappresentasse il prerequisito per conquistare il consenso delle diverse classi sociali per la costruzione della società più giusta a cui ha dedicato la sua vita. La “questione del consenso” era per lui una costante preoccupazione e rappresentava il focus centrale in ogni fase del confronto politico: era per lui un metodo paziente per la costruzione di una consapevolezza profonda, di una condivisione convinta e di una partecipazione razionale per una prospettiva di lunga durata. Odiava il pragmatismo in politica, cioè la ricerca del consenso facile basato su improvvisate e demagogiche proposte di breve periodo, condizionate dagli orientamenti, dalle emozioni e dalle mode del momento, per offrire soluzioni a problemi contingenti e non sempre essenziali. Odiava il “nuovismo”, caratteristica che lui attribuiva più alla pubblicità che al rinnovamento. Odiava la politica rivolta alla pancia e non al cervello della gente.
Non si sarebbe trovato a suo agio in questo periodo.

Beatrice Scionti, figlia di Renato Scionti (filosofo, docente e parlamentare comunista) e dott. Ambrogio Acquilino, marito di Beatrice Scionti.

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