Divagno detto Gnagno. Un nome che nessun altro al mondo ce l’ha e in pochissimi davvero possono indovinarne l’origine. Ma non è una pagina bianca. È uno di quei nomi che, se vivi in un paese libero, lasciano raccontare a chi li porta la propria storia nel solco di una eredità ideale, a testa alta, ma che può capitare di dover pronunciare a voce bassa, se non persino cambiarlo, subendo rettifiche anagrafiche che lo fanno diventare “Mario”, almeno fino a che non gira il vento, soprattutto quando si mette a soffiare sul fuoco che manda in fumo la segheria di tuo padre. Il guaio è che gli squadristi vedono nel tuo nome un nemico da abbattere, assassinato nel corpo, ma che rispunta come un fantasma a mille chilometri di distanza. Perché l’azione di chi ha ispirato il nome di quel bambino è un’onda lunga che dalla Puglia lambisce il cuore del laboratorio politico italiano, al confine tra Toscana ed Emilia, le aree in cui maggiormente (insieme al nord delle Marche e propaggini lombarde e venete) si accende la lotta tra socialisti e fascisti durante il biennio rosso, ed è anche dove si accentua il rifiuto del clericalismo e l’aspirazione al primato della politica fin nell’onomastica, costellata di Libertario, Giustizia, Germinal, Ribella, Ateo, Comunarda, Avanti, Soviet, Ferrer, Repubblica, Lenin, Troschi e Scioperina.
Lì a Soci, minuscola frazione di Bibbiena in provincia di Arezzo ci sono tre fratelli di fede socialista che di cognome fanno Conti. Le loro mogli sono incinte. Quando vengono a sapere dell’assassinio di Giuseppe Di Vagno, un fatto che sentono inaccettabile, decidono che il primo nato avrebbe portato il nome del deputato di Conversano. Trascorse poche settimane, il più turatiano dei tre fratelli festeggerà di aver bruciato gli altri sul tempo. Aveva conosciuto e visto intervenire in Parlamento il colossale deputato socialista proprio quell’anno, una volta che era sceso a Roma per affari; una scappata ce la faceva sempre, senza politica non ci sapeva stare. E ora l’avrebbe ricordato ogni volta chiamando a sé il figliolo: Divagno Conti (virgola) Giuseppe. Da buon ateo non si era interessato di battezzarlo. Era stata la nonna a portare di volata il neonato in chiesa. Il prete quel nome gli metteva i brividi e impose l’aggiunta di Giuseppe. Poco male, da un lato si pensa a Garibaldi, dall’altro al falegname del presepe. L’importante era continuare a far echeggiare ancora e sempre nelle strade il nome del primo deputato socialista ucciso dai fascisti. Perché non lo avrebbero ricordato soltanto in casa, o nelle vie del paese, l’avrebbero ricordato nel mondo intero, secondo i dogmi dell’internazionalismo; e quanto è vero tra l’altro che il nome individuale è “parte della denominazione collettiva”, lo sosterrà l’antropologo Claude Lévi-Strauss ne Il pensiero selvaggio (Il saggiatore, 1964). Se poi ai fascisti non sta bene e sui documenti scrivono Mario è solo un altro valido motivo per saggiarne la stupidità, l’abuso e la prepotenza. A Soci nessuno conosce quel bambino come Mario. A scuola le maestre e i compagni di classe lo chiamano Divagno. In famiglia è Gnagno. Sui fazzoletti ha ricamata l’iniziale D. E lui quel nome lo considererà sempre “una grazia di dio”, da andarne fiero. Felice che non gli sia toccato Ferrè come al cugino, che prese il nome dall’anarchico spagnolo Francisco Ferrer Guardia, fucilato a Barcellona nel 1909 – lo zio dopo Livorno era diventato comunista – oppure come la cugina che aveva rischiato di chiamarsi Lavagnina, a ricordare il ferroviere socialista Spartaco Lavagnini, precursore della “svolta” comunista, ucciso dai fascisti a Firenze nel febbraio del ’21 mentre in ufficio lavorava a un nuovo numero di “L’azione comunista”, il settimanale da lui fondato.
Così Divagno Conti può annoverarsi come unica ricorrenza, neppure registrata nel più esaustivo tra gli studi storici sull’argomento (Stefano Pivato, Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea, il Mulino, 1999). Resta un nome che nessuno al mondo ce l’ha, da quando nel 1866, anno di istituzione dell’anagrafe civile italiana, la registrazione dell’atto di nascita non è più prerogativa del parroco ma di un ufficiale di stato civile (anche se il controllo dei preti al momento del battesimo è testimoniato proprio dalla vicenda di Divagno Conti con l’imposizione di quel secondo nome, Giuseppe). Quando il repertorio onomastico italiano inaugura la stagione dei cosiddetti nomi ideologici, la passione patriottica sostituì dapprima ai nomi dei santi quelli di illustri romani, sulla scia della rivoluzione francese che mettendo per prima in crisi profonda il rapporto tra religione e società fa del nome proprio un atto di testimonianza politica e soprattutto di rifiuto dei valori preesistenti e rigenerazione sociale. In Francia si fa ampio ricorso alla classicità dei Gracco, Spartaco, Scevola e Cornelia, per affiancarli alle parole d’ordine del programma ideologico (Liberté, Voltaire, Victoire, Jacobine…), da noi si moltiplicano quelli dei martiri del Risorgimento fino a soppiantare, proprio negli strati sociali più popolari, in certe zone della Romagna ad esempio, quelli dei santi in calendario. Lo stesso Garibaldi impone ai figli due cognomi in funzione di nomi personali: Menotti, il patriota giustiziato dagli austriaci nel 1831 (Menotti è un nome ancora diffuso nell’Italia degli anni Cinquanta) e Ricciotti, ispirato al carbonaro Nicola, che finì fucilato con i fratelli Bandiera in Calabria. Di tutte le fedi politiche che si affermano sul finire del secolo XIX, ebbero una parte consistente nel contesto onomastico l’anarchismo e la tradizione dei padri fondatori del socialismo, nascevano figli che già in fasce portavano bandiere sovversive: Marx, Caserio, Adler, Engelsina, Jaurès… Nomi così sono riecheggiati fino alla seconda metà del novecento, non erano infrequenti i Karlmarx tutti d’un fiato, ne ho incrociato uno soprannominato Kalle. Molti hanno memoria dello stopper Niccolai del glorioso Cagliari di Gigi Riva, campione d’Italia nel 1970, che si fregiava del nome Comunardo. Da qualche decennio, estinte le ideologie o quasi, si guarda alla televisione, al cinema e al calcio per i nomi che tramandano passioni di padre in figlio. All’internazionalismo è sopravvissuta solo la struttura economica della globalizzazione, per le strade di Napoli sono cresciuti Diegoarmando a profusione, nei villaggi africani corrono Rogermilla, in onore del calciatore camerunese. E nessuno pretenderà rettifiche anagrafiche, per fortuna.
Scrittore, attivo a diverso titolo nel mondo del teatro, vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti e collabora da anni con Rai Radio 3 per cui cura tra le altre le trasmissioni "Ad alta voce" e "Zazà". L’ultimo suo libro è "L’invenzione del vento" (Marsilio, 2019).
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