Piazzale Loreto

Le fotografie dei cadaveri di Mussolini, della sua amante Claretta Petacci e di altri sedici tra gli esponenti più in vista del regime, appesi a testa in giù alla pensilina del benzinaio a Piazzale Loreto o ammucchiati in terra con un gagliardetto piantato in mano per scherno, la foto della fucilazione di Achille Starace, davanti al muro con la scritta “Vietato fumare”, animarono un fiorente mercato nei giorni che seguirono il 29 aprile 1945, tanto che il prefetto di Milano dopo due settimane dovette disporne il sequestro e il divieto di esposizione nei luoghi pubblici. Un passo delle memorie dello scrittore Corrado Alvaro (Quasi una vita, 1950) ne dà diretta testimonianza: “Si affollano per comprare le fotografie del duce in piazza Loreto, e sono troppi per non lasciar pensare che siano quasi tutti quelli che lo applaudirono e lo lusingarono fino all’abiezione. Uno dice: ‘Lo porto a mia moglie’. Sono quasi esilarati di non essere potenti, e quindi di tenersi la loro misera e tremebonda vita. Un giornale ha venduto 150 mila copie di queste riproduzioni. Guadagno, un milione e mezzo”.
E lo storico Sergio Luzzatto ancora recentemente ribadisce: “Piazzale Loreto sta alla Liberazione come Piazza Venezia sta al fascismo: vale la sua metafora icastica, ma imbarazzante… esibisce fin troppo la natura politicamente indistinta e moralmente anfibia della folla plaudente, irretita a Roma dal duce vivo, a Milano dal duce cadavere”.
Ma quello che successe a Milano, dopo che alle prime luci dell’alba del 29 aprile il colonnello Valerio (nome di battaglia del capo partigiano Walter Audisio) scaricò sul selciato della piazza i cadaveri dei capi del fascismo fucilati a Dongo (la sentenza di morte per Mussolini e la Petacci era stata eseguita a Giulino di Mezzegra) non va considerato soltanto nel suo valore di cerimonia indigesta, che viene a sancire la fine della guerra con la certezza dell’uccisone del duce e della stretta cerchia dei suoi collaboratori, ma come atto conclusivo, preteso tale anche nella sua aperta simbologia, di un conflitto fratricida, che nel biennio ’43-’45 ha assunto i caratteri della guerra civile, facendo riemergere una vena tribale mai del tutto estirpata dalla nostra civiltà con “il repentino e traumatico passaggio dalla morte celata a quella ostentata”, dopo l’8 settembre. L’azione della Repubblica di Salò, in accordo con la mistica delle origini del fascismo e con le tecniche delle rappresaglia nazista, che miravano a spezzare il legame tra popolazione e resistenti, si caratterizzò da subito per la scelta terroristica dell’esibizione pubblica dei corpi delle vittime. Già il 15 novembre del 1943, all’indomani del 1° Congresso del Partito Fascista Repubblicano, che si svolse a Verona, una spedizione rastrellerà Ferrara in segno di intimidazione e rappresaglia per l’uccisione del federale Igino Ghisellini, avvenuta due notti prima. I corpi degli undici oppositori fucilati verranno lasciati per ore in strada “riversi in tre mucchi separati, lungo la spalletta della Fossa del Castello, lungo il tratto di marciapiede esattamente opposto al Caffè della Borsa; e per contarli e identificarli, da parte dei primi che avevano osato avvicinarsi (di lontano non parevano nemmeno corpi umani: stracci, bensì, poveri stracci o fagotti buttati là, al sole, nella neve fradicia), era stato necessario rivoltare sulla schiena coloro che giacevano bocconi e separare l’uno dall’altro quelli che, caduti abbracciandosi, facevano tuttora uno stretto viluppo di membra irrigidite.”, questa la descrizione che ne offre Giorgio Bassani nel suo racconto La notte del ’43 (da cui Florestano Vancini trasse il suo film, quasi con lo stesso titolo, aggiungendo l’aggettivo “lunga” alla notte).
A partire dalla primavera del ’44 si erano intensificati i rastrellamenti compiuti dai soldati tedeschi in ritirata, le fucilazioni affidate spesso ai militi dell’Rsi, la distruzione dei paesi e le stragi di civili per stroncare in maniera preventiva o punitiva ogni ostacolo posto dalla popolazione, non necessariamente come rappresaglia ad azioni partigiane. In autunno, quando l’avanzata alleata ristagna, ganci e forche compaiono in molti paesi, i cadaveri di trentuno giovani partigiani penzolano per un giorno intero dagli agli alberi del corso di Bassano del Grappa. Un impiccato per ogni albero. Nella centrale Piazza Nettuno di Bologna vengono più volte abbandonati corpi senza vita di oppositori al regime. Spesso i cadaveri portano cartelli al collo: “bandito”, oppure “ero un ribelle, questa è la mia fine”.
“In un altro paese toscano”, scrive Piero Calamandrei, “il viale dei vecchi platani, nel quale dalla porta delle mura sfociava nei pomeriggi domenicali la folla festiva, è diventato, da quel giorno che a ogni tronco si vide penzolare uno dei cento ostaggi, un desolato cammino di cimitero […] quante generazioni occorreranno per dimenticare il maleficio inflittoci da coloro che trasformarono in forche per creature innocenti i benigni alberi delle nostre campagne?”
E proprio Piazzale Loreto, a Milano, il 10 agosto del ’44, è teatro di uno dei più atroci tra questi atti. Quindici membri della resistenza fucilati all’alba, per rappresaglia ad un attentato gappista che non aveva fatto vittime, vengono lasciati esposti sotto il sole cocente della piena estate, coperti di mosche, in modo che gli operai andando al lavoro si imbattano nel groviglio dei corpi senza vita, sovrastato dal cartello “assassini”. I corpi, sorvegliati dai militi fascisti che impediscono ai parenti di avvicinare i defunti, sono oltraggiati e insultati anche dalle ausiliarie della RSI. Lo shock fu tale che il nome della piazza venne cambiato non appena liberata Milano. Piazzale Loreto sarà intitolata alla memoria di quei quindici martiri, pochi giorni prima quindi di quel 29 aprile 1945 nel quale sulla scia di questa catena di violenze diventerà luogo di un contrappasso che di dantesco ha persino il carattere medioevale. La resistenza, che per sua natura politica e militare si muove tra impulso spontaneo e organizzazione, costruisce una messa in scena simmetrica nell’orrore e nel numero dei corpi esposti. E perché tutti vedano e riconoscano Mussolini e gli altri odiati gerarchi, verranno vergati sulla pensilina i loro nomi, in corrispondenza dei cadaveri appesi per i piedi – anche qui secondo un’arcaica simbologia, l’impiccagione al contrario, massima infamia per il capo dei propri nemici. Per la comunità italiana sarà un momento di tale orrore da zittire ogni appropriazione politica. La folla calpestò i cadaveri, vi orinò sopra, li prese a calci e sputi, sparò ancora (ci fu una donna che esplose cinque colpi di pistola contro il cadavere di Mussolini, per i cinque figli morti in guerra), li ricompose in scenette granguignolesche, come quella che vediamo in una foto, con il corpo di Mussolini adagiato sul petto della Petacci e il gagliardetto fascista tra le mani. La fucilazione di Achille Starace, catturato quello stesso giorno mentre pare stesse facendo jogging per Milano, avvenne a pochi metri dalla pensilina della Standard Oil da cui già penzolavano Benito Mussolini, Claretta Petacci e suo fratello Marcello, Alessandro Pavolini, Paolo Zerbino, Fernando Mezzasoma e Francesco Maria Barracu, il cui cadavere cadde e venne prontamente sostituito con il suo. Una foto ritrae la Petacci distesa, la gonna stretta da una cintura affinché non si rovesci. Alcuni scrivono che non avesse le mutande. Anche la contemplazione collettiva di un cadavere martoriato ha le sue forme di convenienza.

Scrittore, attivo a diverso titolo nel mondo del teatro, vicedirettore della rivista Nuovi Argomenti e collabora da anni con Rai Radio 3 per cui cura tra le altre le trasmissioni "Ad alta voce" e "Zazà". L’ultimo suo libro è "L’invenzione del vento" (Marsilio, 2019).

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