L’azionismo in Puglia

Fornire una sintesi, in poche pagine, di quello che è stato l’azionismo, ed in particolare la sua anima liberalsocialista, in Puglia, è proponimento per lo meno velleitario. Mi limiterò, quindi, a stendere alcune note, sotto forma di un insieme di appunti, che non hanno alcuna ambizione di completezza e i sistemazione definitiva della questione ma che anzi vogliono essere strutturalmente aperte ed inconcluse.
È ormai ampiamente accertato che l’azionismo, in Puglia, fu caratterizzato da alcune specificità che lo differenziarono dalla forma propria che esso assunse nel centro-nord del Paese. Vittore Fiore, in particolare, in un suo testo della metà degli anni Ottanta, riconobbe al liberalsocialismo pugliese, liberalsocialismo che fu la visione ideologica maggioritaria tra coloro che tra la fine degli anni Trenta e la seconda metà degli anni Quaranta aderirono a quel partito nella nostra regione, due specificità che sono alla base della sua originalità: l’attenzione ai temi meridionalisti, nonché l’ampio credito riconosciuto alle questioni proprie dell’europeismo allora nascente.
Il restituire centralità, nell’agenda della azione politica dello Stato, ai temi meridionalisti, dopo che nel Ventennio fascista essi non solo vennero cancellati da quella ma vennero addirittura negati nella loro esistenza, in virtù della formula “dell’ormai risolta questione meridionale da parte del regime”, fu forse il principale compito che si diedero gli azionisti meridionali, e tra loro in modo particolare quelli pugliesi. E lo fecero proponendosi di riportare in primo piano la questione meridionale collegando la sua soluzione al pieno sviluppo della democrazia, non solo formale, in Italia. Fu il recupero della lezione di Giustino Fortunato e di Gaetano Salvemini da parte di costoro che fece in modo che fosse riproposto con forza il problema dell’emancipazione delle plebi meridionali in termini politici nuovi, rispetto a quelli che avevano caratterizzato la questione sullo scorcio del XIX secolo ed i primi vent’anni del XX. Recupero di quelle lezioni che assegnò all’azionismo un primato: fu il Pd’A il primo partito che pose il problema all’ordine del giorno, già nel dicembre 1944 a Bari, durante l’assise dedicata specificamente a questo tema. E le soluzioni che emersero dai vari interventi andarono in seguito ad alimentare la discussione nei partiti che, nella maggior parte, ereditarono il patrimonio di idee che era stato del partito d’Azione: principalmente il partito repubblicano di La Malfa e Cifarelli e il partito socialista di Fiore e Rossi-Doria. Ne sarà nutrito anche il dibattito culturale del dopoguerra che, attraverso, ad esempio, la rivista «Nord e Sud», riprenderà – ibridandole con il liberalismo di sinistra de «Il Mondo» pannunziano – alcune delle suggestioni avanzate dagli esponenti dell’azionismo meridionale, in particolare di coloro che si erano ispirati al pensiero di Guido Dorso che era mancato nel 1947, in concomitanza con la scomparsa dal panorama politico nazionale del Partito d’Azione.
Ma oltre a ciò, non bisogna sottovalutare come specificità che fu alla base della originalità dell’azionismo pugliese l’ampia adesione alle tematiche proprie dell’europeismo allora nascente. Adesione dettata da una analisi realista sulle possibilità del pieno radicarsi della democrazia in Italia. Come è noto, l’origine ideale dell’europeismo italiano va fatta risalire al giugno del 1941, alla stesura, nel confino di Ventotene, da parte di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, del cosiddetto manifesto-programma del Movimento Federalista Europeo. Manifesto che poi venne fatto proprio da coloro (tra essi, oltre a Colorni, Spinelli e Rossi, anche Leone Ginzburg, Giovanni Jervis, Vittorio Foa, Manlio Rossi Doria, Franco Venturi) che si riunirono in un primo convegno a Milano, nell’agosto del 1943, che approvò sei tesi politiche ed una mozione, con la quale vennero segnate le direttive generali per la propaganda del Movimento in Italia. Inoltre, gran parte degli enunciati del Manifesto vennero condivisi dalle riunioni tenute a Ginevra, dal marzo al giugno 1944, dei rappresentanti delle Resistenze di Cecoslovacchia, Danimarca, Francia, Italia, Norvegia, Olanda e Polonia, che elaborarono il cosiddetto “progetto di dichiarazione federalista della Resistenza europea”. Ma il primo Congresso Nazionale, che sancì la nascita ufficiale del M.F.E., attraverso l’approvazione dello statuto del Movimento, fu quello dell’ottobre 1946, tenuto a Venezia, riunione questa a cui ordinariamente si fa riferimento come quella generativa nelle storie del M.F.E. Fu da questo momento che vennero tesserati gli aderenti, che venivano così ad avere duplice tessera, al partito d’appartenenza ed al Movimento. Tra gli azionisti, tutti i maggiori esponenti del partito pugliese (come, ad esempio, Giuseppe Patrono, Vittore Fiore, Michele Cifarelli, Vincenzo Calace) ebbero la duplice tessera, portando in tal modo le tematiche del Movimento nel dibattito politico del partito. E questo sulla base di una convinzione che, riprendendo alla lettera le parole di Ernesto Rossi, fu così espressa da Giuseppe Patrono: «impossibile restaurare la pace, il benessere, la libertà sul nostro continente, se non si arriva agli Stati Uniti d’Europa». E questo perché «la linea di divisione tra forze progressiste e reazionarie passa oggi fra federalismo e nazionalismo. Le ragioni della politica internazionale, infatti, dominano oggi la politica interna […] i burattinai che tirano le fila stanno nella Casa Bianca, nel Cremlino, a Downing Street, e il nostro lavoro, il nostro pane, la nostra libertà, purtroppo, oggi dipendono da loro, più che da noi. [….] Il problema della organizzazione internazionale della pace è oggi il problema centrale, il problema .a cui soluzione condiziona le soluzioni di tutti gli altri problemi, anche di politica interna». Un europeismo forse un po’ strumentale, ma che fu il mezzo per una presa di coscienza delle radici comuni d’Europa, dopo decenni di propaganda che mettevano al primo posto gli elementi divisivi tra i popoli del continente.
A queste due specificità bisogna probabilmente aggiungerne, seguendo De Luna, un altro paio (che però forse si caratterizzarono come debolezze), per altro condivise da tutto l’azionismo meridionale. La prima, che è forse la più nota, è legata all’atteggiamento di assoluta contrarietà ad ogni ipotesi di collaborazione con la monarchia dopo il periodo dei “45 giorni”, atteggiamento a cui era seguito l’ordine del giorno del CLN romano del 16 ottobre 1943 sulla cui falsariga si mossero gli azionisti meridionali. Tale ordine del giorno ebbe un peso notevole per far sì che il Pd’A nell’Italia liberata sposasse la linea dell’intransigenza assoluta contro la monarchia, linea per altro derivata da ragioni oggettive. Come sottolinea De Luna, se da una parte, infatti, vi era la necessità di mettere in condizioni di non nuocere le forze moderate che si andavano riformando all’ombra delle clientele annidate nei residui della struttura burocratica del regime, dall’altra, il governo militare alleato non avrebbe tollerato altro che una linea di “opposizione istituzionale”. Ma lo stesso De Luna segnala che il Partito d’Azione sarebbe stato, in qualche modo, costretto a seguire questa via proprio in virtù della composizione stessa del partito al Sud, legata a personalità abituate a una gestione notabilare del potere. E che, purtroppo, «le posizioni più vive, quelle ad esempio di Guido Dorso e Tommaso Fiore, che pure costantemente si sforzarono di legare la lotta contro la monarchia a quella contro il “blocco agrario”, con un tentativo di analisi corretta della situazione politica, rimasero sul piano delle intenzioni, incapaci com’erano di legarsi concretamente a quelli che dovevano essere i protagonisti per eccellenza di questa lotta, i contadini appunto».
La seconda fu più retorica che effettuale, ma fu fonte di persistenti confusioni ideologiche, a volte in grado di intorpidire la progettazione dell’azione politica. Dalla lettura di ciò che hanno scritto gli azionisti meridionali, e pugliesi nello specifico, risalta con evidenza, ed anzi in più occasioni è esplicitamente dichiarata, la volontà di ricollegarsi a quella linea ideale e politica che dal pensiero di Salvemini e Gobetti – per arrivare alla teorizzazione rosselliana de «Il Quarto Stato» – avrebbe trovato la più completa realizzazione nel liberalsocialismo riguardo alla «revisione in senso liberale del socialismo». Ma come è stato da più parti sottolineato questa genealogia illustre – la linea Salvemini, Gobetti e Rosselli – va, però, a confliggere con quanto sostenuto nei loro scritti dai liberalsocialisti di ascendenza gentiliana – Calogero e Capitini, ciascuno ovviamente con un diverso approccio – in merito a un liberalsocialismo estraneo alle correnti politiche e ai fermenti dell’anteguerra e ciò ben al di là dell’ovvia ragione anagrafica (Fiore era nato nel 1884, Capitini nel 1899, Calogero nel 1904). Si prenda, ad esempio, Calogero. Costui, infatti, più volte sottolineò che, nel suo modo di intenderlo, «il liberalsocialismo è stato un moto di antifascismo postfascista, non di antifascismo prefascista». Mentre, da parte sua, Capitini – benché in più luoghi della propria opera riconosca il debito intellettuale che aveva contratto con Gobetti – confessò con forza che «quasi nulla sapevamo dell’antifascismo in Italia e all’estero; lo abbiamo imparato dopo; io ho letto il libro di Carlo Rosselli sul socialismo liberale nel 1946! Con l’aperta informazione che c’è oggi può sembrare inverosimile dire che noi non sapevamo nulla dei socialisti e dei comunisti, di Gramsci, degli antifascisti di Parigi, di Salvemini, e poi di Lauro De Bosis, di Carlo Rosselli», ma era così.
A ciò, infine, si aggiungano le caratteristiche del rapporto (o mancanza di rapporto?) con Croce dei liberalsocialisti settentrionali, dato questo che (più Capitini che Calogero) li allontana dall’insieme di esperienze culturali che costituirono il retroterra ideologico di ciascuno dei liberalsocialisti meridionali Per i meridionali e in particolar modo per Tommaso Fiore, infatti, come già evidenziato da Fabio Grassi Orsini, il confronto con il filosofo e intellettuale napoletano nel processo di avvicinamento al liberalsocialismo fu dirimente. Croce aveva, infatti, riflettuto a lungo negli anni della crisi tra le due guerre sui motivi di difficoltà del liberalismo. Egli, del resto, non era rimasto estraneo alla «revisione in senso liberale del socialismo» e anzi l’aveva, in un primo tempo, promossa e sostenuta giungendo fino a guardare con simpatia a quei settori del marxismo che facevano proprio il metodo liberale. L’allontanamento di Croce da queste posizioni e le incomprensioni che seguiranno con il Partito d’Azione e i suoi seguaci risalgono al momento in cui – leader del ricostituito partito liberale – si rese conto «che l’eredità rosselliana era divenuta un elemento del patrimonio del Partito d’Azione», ed elemento strutturale di un partito che non era solo liberalsocialista ma che tra le sue anime ne disponeva anche una, di derivazione Giustizia e Libertà, rosselliana.
Assai più problematico è invece il rapporto di Croce con i gentiliani Capitini e Calogero. Capitini parlando della ricezione da parte del filosofo napoletano del suo libro Elementi di un’esperienza religiosa – volume fondante l’esperienza liberalsocialista pisano-perugina assieme a La scuola dell’uomo di Calogero – ricordò che a Croce non interessavano «né le moltitudini, né l’individuo, che per lui era, in sostanza, noioso: a lui interessavano le opere, i prodotti, i valori realizzati. Perciò, realmente, a parte l’utilizzazione spiritualistica del mio lavoro, egli restava estraneo alla direzione del mio lavoro, di capovolgere l’esistenzialismo dall’io al tu e di intendere la compresenza di tutti alla produzione dei valori […]». Calogero, da parte sua, rifiutò lo storicismo assoluto di Croce come anche «l’identità e la riduzione della libertà all’essenza dell’uomo» (rifiuti, per la verità, messi in discussione da Gennaro Sasso) per lanciare il messaggio che – nell’attuale contingenza storica (si parla del 1939) – è necessario «un intervento di lotta per la libertà, anche ricorrendo alla forza pur di stabilire la norma della libertà». Così, ad esempio, Sbarberi ha ritenuto di dover sottolineare «i residui attualistici presenti nel pensiero maturo di Calogero», mettendo in relazione l’unità e l’identità tra gli ideali di libertà e giustizia teorizzate da Calogero «nei saggi sul liberalsocialismo […] con un’istanza etica di tipo monista inconfondibilmente legata alla lezione di Gentile». Residui attualistici che certamente molto pesarono nella presa di distanza di Croce dai risultati della riflessione filosofico-politica di Calogero, manifestata per il tramite di una serie di confutazioni che culminano con l’articolo Scopritori di contraddizioni, apparso su «La Critica» il 20 gennaio 1942.

Docente di storia e filosofia. Comitato scientifico Fondazione Giuseppe Di Vagno.

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